Su una cosa penso siamo tutti d’accordo: l’Italia ha ancora bisogno di fare i conti (seriamente) con il proprio passato fascista. Questo libro è un canto, un urlo mi viene da dire, che grida le ingiustizie subite dai prigionieri africani di uno dei primi lager – precedente a quelli tedeschi, ben più terribili anche se forse solo in termini numerici. Il testo è breve e molto pregnante, di quelli che ti entrano sotto la pelle per direttissima. Inoltre, è anche un progetto editoriale a mio avviso coraggioso che merita di essere letto e divulgato. Il tutto è impreziosito da una prefazione storica di Antonio Scurati e da una bellissima postfazione di Mario Eleno e Manuela Mosè, i traduttori del testo. Alla fine di questo scritto trovi il link per l’acquisto (se utilizzi questo link sostieni anche il progetto Parole on the road).
Riporto qui la seconda di copertina, che qualsiasi altra parola da parte mia mi pare banale e superflua.
«Carta e matita erano vietate nel campo di concentramento fascista di El-Agheila, in Libia, nella Cirenaica sud-occidentale, sulla costa meridionale del Golfo della Sirte. I detenuti costretti a raggiungerlo percorrendo quattrocento chilometri a piedi nel calore estenuante del deserto erano donne e bambini, anziani e ragazzi. C’erano anche uomini valorosi, che avevano combattuto e resistito agli attacchi dell’aviazione, all’ipirite, ai proiettili, alle bombe lanciate sui villaggi, alla mancanza d’acqua, ai pozzi soffocati col cemento, alla politica fascista di devastazione e sterminio. Fra loro c’era un poeta, Rajab Abuhweish1 che dietro il filo spinato, con sentinelle a ogni ingresso che sorvegliavano puntando le mitragliatrici, nella rovina e nella violenza, esiliato in patria, trincerato dietro la sua voce, compose a memoria un poema di trenta strofe e lo trasmise oralmente agli altri prigionieri, rafforzandone lo spirito di resistenza, come un’arma per sopravvivere, tracciando al contempo tutte le torture subite dal suo popolo. Un canto come ultimo rifugio, un canto per scampare alle sabbie, al fuoco, agli assalti dell’assurdo, alla morte.
E quel verso che ritorna, come una preghiera e una maledizione: Il mio solo tormento.
Il 16 settembre 1931, Omar al-Mukhtar – la guida del movimento di resistenza armata delle tribù – era stato condannato da un tribunale fantoccio e impiccato pubblicamente nei pressi di Bengasi, le speranze di riconquistare la propria terra si erano estinte, e Rajab cantò con rabbia e angoscia il genocidio in Libia commesso dall’Italia fascista. Tra i prigionieri che ascoltarono c’era Ibrahim al-Ghomary, un uomo colto, che in seguito, sopravvissuto nel 1934 alla chiusura del campo di El-Agheila, trascrisse scrupolosamente il poema, giocando un ruolo fondamentale nella sua trasmissione.»
Alcuni link di approfondimento e altre informazioni
Non ho avuto tempo di leggere tutte le 81 pagine di questa tesi, ma per quanto ho visto è un lavoro piuttosto interessante. Trovi il testo qui.
Qui invece i link per acquistare il libro «Il mio solo tormento». Usando uno di questi link sostieni il progetto editoriale e, al contempo, Parole on the road. Grazie in anticipo!
Aggiungo qui i due link con i consigli di viaggio per cittadini svizzeri e italiani. Purtroppo, attualmente tutti i viaggi con destinazione Libia sono sconsigliati vista la situazione.
Dipartimento federale degli affari esteri
Questo è un vero peccato perché la Libia avrebbe molto da offrire a un viaggiatore curioso. Vanta una storia antichissima, le cui prime attestazioni si riscontrano addirittura nell’antico Egitto. Abitata da greci e fenici, poi passata sotto dominio romano (almeno nella sua parte nord-occidentale), la sua ricca storia ha lasciato molti segni visibili ancora oggi come ad esempio l’Arco di Marco Aurelio o il Teatro romano di Sabratha, entrambi nell’area dell’odierna Tripoli.
A ciò si aggiungono moschee, oasi e – ovviamente – escursioni nel deserto. Ma, come detto, dobbiamo aspettare ancora e sperare che la situazione migliori presto.
Nota di aggionramento
Ricordi quando ho parlato della questione nazisti su Substack e di come avrei voluto trovare una soluzione per aggirare il problema (link all’articolo)?
Bene, ho trovato la soluzione: mi appoggio a un servizio esterno, attraverso il quale le persone che mi leggono possono decidere di supportare finanziariamente questo mio progetto con importi a partire da EUR 2. Non è obbligatorio ma, se apprezzi il mio lavoro, è un modo per farmelo sapere. In questo modo, Substack non guadagna soldi e – almeno per il momento – la questione etica è risolta :-). Grazie in anticipo per avermi offerto un té virtuale, nell’attesa di bercene uno insieme da qualche parte nel mondo.
Buona viaggio, ovunque tu stia andando
Rajab Abuhweish, poeta libico, studioso e insegnante. Partecipò alla resistenza del suo paese fino all’internamento nel campo di El-Agheila gestito dagli italiani. Ne uscì vivo ma con lo status di cittadino italiano libico. Morì nel 1952, pochi mesi dopo l’indipendenza della Libia, all’alba della Costituzione.
Grazie Marta, bella segnalazione, non conoscevo questo titolo.
Mi ha fatto pensare al poeta greco Ritsos che scriveva poesia durante la sua prigionia politica su un'isola. E pure a Marcos Ana, imprigionato dal franchismo. I versi non restano mai dietro le sbarre, trovano sempre la via della libertà