Nomadismo digitale e consapevolezza
Viviamo nell'era della consapevolezza, o così dovrebbe essere. E il nomadismo digitale non fa eccezione.
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È innegabile: siamo nell’era della consapevolezza (o così dovrebbe essere). Sul piano climatico, delle democrazie, delle guerre fino all’uso che facciamo di internet e dei social media.
E il nomadismo digitale non fa eccezione. Pur essendo uno stile di vita relativamente nuovo, anche se esiste con svariate forme da prima che venisse definito tale, il nomadismo digitale prima o poi dovrà arrendersi e, per così dire, «guardarsi dentro».
Queste mie riflessioni nascono dalla lettura di un articolo1 molto critico verso questo fenomeno. Tuttavia ritengo che nell’articolo si faccia di tutta un’erba un fascio andando a mettere sullo stesso piano i nomadi digitali e quelli che in inglese, e in gergo, vengono definiti «expat». Con questo termine, che è una contrazione della parola inglese «expatriates», ossia «emigrati» in italiano, si definiscono coloro che vivono anche stabilmente all’estero. Nello specifico, l’articolo parla degli expat statunitensi che si trasferiscono a Città del Messico per via dell’inferiore costo di vita. Questo spostamento però causa un aumento del costo della vita a Città del Messico costringendo molti abitanti indigeni a trasferirsi altrove.
Senza bisogno di andare dall’altra parte dell’Atlantico, anche in Europa conosciamo il fenomeno. Basta pensare alle Canarie, divenute ormai una colonia per (pensionati e non solo) soprattutto britannici e tedeschi, dove il costo della vita è mediamente più elevato che nel resto della Spagna. Tuttavia, se le Canarie sono diventate così interessanti è anche per via del regime fiscale privilegiato di cui godono che permette un risparmio sulle tasse alle persone e aziende che decidono di trasferirsi lì.
Tuttavia, il fenomeno del nomadismo digitale è leggermente diverso perché, lo dice la parola stessa, non è una scelta stanziale. Però non dobbiamo cedere alla tentazione (tutta umana) della romanticizzazione e dobbiamo riconoscere che anche il nomadismo digitale porta con sé qualche risvolto negativo - come ad esempio certe zone di Bali che ormai sembrano vere e proprie enclave occidentali (fino a parlare di imperialismo culturale, ma non in questa occasione!).
Credo abbiamo bisogno di più studi e di più dati relativi ai nomadi digitali così da poter, in futuro, trarre conclusioni più precise. Inoltre, a mio avviso, questo fenomeno si inserisce in un’evoluzione culturale ben più ampia con ripercussioni più profonde di quelle che siamo in grado di vedere e studiare oggi.
Vero è anche che la figura del nomade digitale è più difficile da inquadrare: non è una professione, non è un movimento politico né una religione o altro. E se, da un lato, questo è a mio avviso positivo perché ne sottolinea la natura anticonvenzionale e ribelle, dall’altro lo rende un fenomeno meno analizzabile rispetto ad altri.
È a questo punto che subentra la consapevolezza, anche se al momento è lasciata ai singoli individui. Ad esempio, tempo fa ho avuto uno scambio in merito all’eticità di certe «attrazioni turistiche» come le cosiddette «donne giraffa» della tribù dei Kayan Lahwi. Di origine birmana, queste tribù sono fuggite in Thailandia verso la fine degli anni Ottanta, perché entrate in conflitto con il regime birmano, per poi finire in «villaggi turistici» che attirano molti visitatori (e denari) stranieri2. Nello scambio ci si chiedeva appunto se fosse etico visitare (a pagamento) queste comunità perché questa scelta porta con sé un retrogusto di spettacolarizzazione e sfruttamento che fa percepire tali comunità come «fenomeni da baraccone» lasciando perplesse le persone più attente.
D’altro canto, a queste comunità spesso non restano molte altre opzioni se non la povertà. E allora che fare? Non so quale sia la soluzione giusta, tuttavia penso che la cosa importante sia che i proventi del turismo vengano reinvestiti per il benessere delle comunità stesse (istruzione, ospedali, acqua pulita ecc.). Mi rendo conto di essere naïve, perché in realtà i primi a sfruttarle sono i loro stessi governi. Però se il supporto alle comunità non fosse garantito o non fosse verificare come i proventi vengano reinvestiti avrei qualche remora in più ad accettare di pagare per visitare queste culture. Anche se per altre ragioni, faccio lo stesso ragionamento per certi regimi: quando organizzai il mio viaggio in Giappone ebbi la tentazione di fare una capatina in Corea del Nord (tutto sommato, ero già in zona). Poi però mi sono resa conto che l’esorbitante costo del visto (a suo tempo si parlava di un paio di migliaia di dollari) avrebbe solo finanziato il regime senza alcun beneficio per le persone. Per questa (e altre) ragioni decisi di rinunciare.
Mi rendo anche conto del fatto che, spesso, i governi dei Paesi in cui si trovano queste culture così diverse dalla nostra hanno problemi ben più grandi e urgenti. Tuttavia, porsi almeno la domanda mi sembra un buon punto di partenza.
Così come lo è l’associazione Nomads Giving Back3, un’associazione di volontariato nata proprio dalla spinta di alcuni nomadi digitali di voler restituire qualcosa alle comunità che visitano e in cui vivono, anche solo temporaneamente.
E tu cosa ne pensi? Se ti va rispondi a questa e-mail con il tuo punto di vista!
Un’ultima cosa prima di salutarci.
Dal prossimo mese Parole on the road arriverà nella vostra casella di posta a cadenza mensile. Almeno per i prossimi mesi ho bisogno di focalizzarmi su altri progetti e devo quindi ridurre il mio impegno qui. Però non disperate: il primo lunedì di maggio è in arrivo un’intervista incredibile a una donna viaggiatrice di tutto rispetto.
Grazie e buona strada!
https://not.neroeditions.com/archive/i-nomadi-digitali-vogliono-gentrificare-il-mondo/
https://www.darwinviaggi.com/it/racconti-articoli/donne-giraffa-kayan-lahwi-padaung#:~:text=Sono%20pochi%2C%20solo%20sette%20migliaia,il%20cosiddetto%20allungamento%20del%20collo.
https://nomadsgivingback.com/
Bello spunto l’associazione, darò sicuramente un’occhiata!
Se ne parla molto ultimamente di nomadismo digitale per l'impatto che ha sui luoghi dove queste persone vanno. Banalmente, spesso fanno aumentare gli affitti di posti dove le persone hanno un potere d'acquisto inferiore, ma al tempo stesso investono i loro soldi nel paese dove vanno e fanno comunque girare l'economia. Il discorso è pieno di contraddizioni e molto complesso, in effetti. Se non la segui già, ti consiglio la newsletter di Vincenzo Rizza su questo tema: https://vitadanomade.substack.com/p/altri-nomadi